l’Industria 4.0 : importante saperla affrontare

La quarta rivoluzione industriale trasforma l’intera catena del valore aggiunto, il modo in cui le imprese collaborano oltre confine, nonché il modo in cui accompagnano i clienti porterà alla produzione del tutto automatizzata e interconnessa. Presenta rischi e opportunità: la perdita di 5 milioni di posti paventata da uno studio diffuso al World Economic Forum, ma anche lo sviluppo dello Smart Manufacturing attraverso l’integrazione dei partner commerciali e dei clienti si creano nuovi modelli d’affari e di cooperazione. Tuttavia un’interconnessione ancora più forte nel commercio internazionale solleva altresì domande da parte delle imprese esportatrici.

L’industria 4.0 scaturisce dalla quarta rivoluzione industriale. Non esiste ancora una definizione esauriente del fenomeno, ma in estrema sintesi alcuni analisti tendono a descriverla come un processo che porterà alla produzione industriale del tutto automatizzata e interconnessa. Secondo un recente rapporto della multinazionale di consulenza McKinsey le nuove tecnologie digitali avranno un impatto profondo nell’ambito di quattro direttrici di sviluppo: la prima riguarda l’utilizzo dei dati, la potenza di calcolo e la connettività, e si declina in big data, open data, Internet of Things, machine-to-machine e cloud computing per la centralizzazione delle informazioni e la loro conservazione. La seconda è quella degli analytics: una volta raccolti i dati, bisogna ricavarne valore. Oggi solo l’1% dei dati raccolti viene utilizzato dalle imprese, che potrebbero invece ottenere vantaggi a partire dal “machine learning”, dalle macchine cioè che perfezionano la loro resa “imparando” dai dati via via raccolti e analizzati.  La terza direttrice di sviluppo è l’interazione tra uomo e macchina, che coinvolge le interfacce “touch”, sempre più diffuse, e la realtà aumentata:  per fare un esempio la possibilità di migliorare le proprie prestazioni sul lavoro utilizzando strumenti come i Google Glass. Infine c’è tutto il settore che si occupa del passaggio dal digitale al “reale”, e che comprende la manifattura additiva, la stampa 3D, la robotica, le comunicazioni, le interazioni machine-to-machine e le nuove tecnologie per immagazzinare e utilizzare l’energia in modo mirato, razionalizzando i costi e ottimizzando le prestazioni.

  • Come nasce il termine Industria 4.0

L’espressione Industrie 4.0 è stata usata per la prima volta alla Fiera di Hannover nel 2011 in Germania. A ottobre 2012 un gruppo di lavoro dedicato all’Industria 4.0, presieduto da Siegfried Dais della multinazionale di ingegneria ed elettronica Robert Bosch GmbH e da Henning Kagermann della Acatech (Accademia tedesca delle Scienze e dell’Ingegneria) presentò al governo federale tedesco una serie di raccomandazioni per la sua implementazione. L’8 aprile 2013, all’annuale Fiera di Hannover, fu diffuso il report finale del gruppo di lavoro.

  • Come e quando nasce la quarta rivoluzione industriale

Finora le rivoluzioni industriali del mondo occidentale sono state tre: nel 1784 con la nascita della macchina a vapore e di conseguenza con lo sfruttamento della potenza di acqua e vapore per meccanizzare la produzione; nel 1870 con il via alla produzione di massa attraverso l’uso sempre più diffuso dell’elettricità, l’avvento del motore a scoppio e l’aumento dell’utilizzo del petrolio come nuova fonte energetica; nel 1970 con la nascita dell’informatica, dalla quale è scaturita l’era digitale destinata ad incrementare i livelli di automazione avvalendosi di sistemi elettronici e dell’IT (Information Technology). La data d’inizio della quarta rivoluzione industriale non è ancora stabilita, probabilmente perché è tuttora in corso e solo a posteriori sarà possibile indicarne l’atto fondante. L’argomento è stato al centro del World Economic Forum 2016, dal 20 al 24 gennaio a Davos (Svizzera), intitolato appunto “Mastering the Fourth Industrial Revolution”.

  • Gli effetti della quarta rivoluzione industriale sul mercato del lavoro

Gli osservatori stanno cercando di cambiare come cambierà il lavoro, quali nuove professionalità saranno necessarie e quali invece presto potrebbero scomparire. Dalla ricerca “The Future of the Jobs” presentata al World Economic Forum è emerso che, nei prossimi  anni, fattori tecnologici e demografici influenzeranno profondamente l’evoluzione del lavoro. Alcuni (come la tecnologia del cloud e la flessibilizzazione del lavoro) stanno influenzando le dinamiche già adesso e lo faranno ancora di più nei prossimi 2-3 anni. L’effetto sarà la creazione di 2 nuovi milioni di posti di lavoro, ma contemporaneamente ne spariranno 7, con un saldo netto negativo di oltre 5 milioni di posti di lavoro. L’Italia ne esce con un pareggio (200mila posti creati e altrettanti persi), meglio di altri Paesi come Francia e Germania. A livello di gruppi professionali le perdite si concentreranno nelle aree amministrative e della produzione: rispettivamente 4,8 e 1,6 milioni di posti distrutti. Secondo la ricerca compenseranno parzialmente queste perdite l’area finanziaria, il management, l’informatica e l’ingegneria. Cambiano di conseguenza le competenze e abilità ricercate: nel 2020 il problem solving rimarrà la soft skill più ricercata, ma diventeranno più importanti il pensiero critico e la creatività. Proprio perché lo scenario è in rapida evoluzione, dobbiamo attrezzarci per cogliere i benefici dello Smart Manufacturing, l’innovazione digitale nei processi dell’industria. Nel breve termine si possono prevedere saldi occupazionali negativi, nel medio-lungo termine non è assolutamente certa una contrazione degli occupati in numero assoluto, considerato anche l’impatto nell’indotto, in particolar modo nel terziario avanzato. Il nostro paese però deve sapere cogliere a pieno i benefici della quarta rivoluzione industriale, attuando iniziative sistemiche per lo sviluppo dello Smart Manufacturing e fornendo ai lavoratori le competenze digitali per le mansioni del futuro.

Fonti:  WEF s-ge ue

Denis Torri




IL REGNO UNITO RESTA IN EUROPA, FINO A NUOVA INDICAZIONE

L’uscita del Regno Unito dall’ Europa infatti deve seguire più fasi:

  • il Regno Unito dovrà notificare al Consiglio europeo la sua decisione di voler lasciare l’ Unione europea;
  • l’ Unione europea dovrà negoziare e concludere un accordo con il Regno Unito per definire l’uscita, l’accordo infatti dovrà essere adottato da una maggioranza qualificata degli stati membri;
  • l’accordo finale deve essere approvato dal Parlamento europeo attraverso un voto di maggioranza semplice. Si prevede che questa procedura potrà protrarsi per i due anni successivi allo scorso 23 giugno 2016, solo allora il Regno Unito sarà ufficialmente fuori dall’Europa con la conseguenza che fiscalmente dovrà essere trattato come un paese extra-Ue.

Adempimenti ancora in vigore

Nella considerazione, quindi, che per ora nulla è cambiato in merito alle operazioni effettuate dagli operatori nazionali da e verso i Paesi facenti parte del Regno Unito, andiamo di seguito a riepilogare in sintesi gli adempimenti da compiere in caso di cessione o acquisto di beni e servizi verso e da tale paese.

Cessione intracomunitaria di beni e servizi

La fattura relativa alle cessioni intracomunitarie di beni deve essere emessa entro il giorno 15 del mese successivo a quello di effettuazione dell’operazione, indicando che si tratta di operazione non imponibile ex articolo 41, D.L. 331/1993. Tali fatture devono essere annotate distintamente nel registro di cui all’articolo 23, D.P.R. 633/1972, secondo l’ordine della numerazione ed entro il termine di emissione, con riferimento al mese di effettuazione dell’operazione. Per le prestazioni di servizi effettuate ad un soggetto passivo debitore d’imposta in altro Stato Ue la fattura andrà emessa senza Iva ex articolo 7-ter, colui che riceverà la fattura dovrà applicare il meccanismo della “inversione contabile”.

Acquisti intracomunitari di beni e servizi

Per gli acquisti intracomunitari e per le prestazioni di servizi, rilevanti territorialmente in Italia, occorre procedere alla integrazione e numerazione della fattura, indicando il controvalore in euro della base imponibile se espressa in altra valuta e l’ammontare dell’Iva secondo l’aliquota vigente. Tali fatture vanno annotate distintamente secondo l’ordine della numerazione:

  • nel registro delle fatture emesse di cui all’articolo 23, D.P.R. 633/1972, entro il giorno 15 del mese successivo a quello di ricevimento, ma con riferimento al mese precedente;
  • nel registro degli acquisti di cui all’articolo 25, D.P.R. 633/1972, entro i termini stabiliti dall’articolo 19, D.P.R. 633/1972, ossia entro la scadenza del termine della dichiarazione annuale relativa al secondo anno successivo. Restano inoltre validi gli obblighi di iscrizione al Vies e di compilazione e invio dei modelli Intrastat.

Possibili conseguenze della Brexit

L’Europa da una parte e il Regno Unito dall’altra potranno stabilire dazi doganali sugli scambi commerciali che provocheranno, chiaramente, l’aumento dei prezzi dei beni ceduti/acquistati. Sarà dovuta l’Iva sulle importazioni in misura maggiore in quanto i dazi concorreranno all’accrescimento della base imponibile dell’imposta. Inoltre il versamento di tale imposta sul valore aggiunto non potrà più effettuarsi con il meccanismo dell’inversione contabile, applicabile ai soli acquisti intracomunitari, ma dovrà avvenire in dogana. Non sarà più possibile chiedere il rimborso dell’Iva previsto per gli acquisti Ue, la possibilità per le imprese che acquisteranno nel Regno Unito di ottenere il rimborso dell’imposta sarà subordinata alla stipulazione di appositi accordi bilaterali. Inoltre l’azienda inglese, ormai fuori dall’unione, dovrà, in caso di operazioni svolte nel nostro paese dotarsi di stabile organizzazione ovvero agire attraverso un rappresentante fiscale e non potrà più adottare la disciplina della identificazione diretta. Chiaramente lo stesso varrà per le imprese europee che opereranno nel Regno Unito.

Fonte: bd-ue; EU

 

Denis Torri




Uniformato il trattamento per le società nella direttiva madre-figlia

La legge n. 122 del 7 luglio 2016disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’ Italia all’ Unione Europea”, meglio nota come “legge europea” è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 132 del 8 luglio 2016.

All’interno delle svariate tematiche contenute nel provvedimento, che entrerà in vigore il prossimo 23 luglio, risultano numerosi gli interventi che rivestono un interesse per la disciplina tributaria.

L’emanazione di tale disciplina è stata stimolata anche “esternamente” in quanto, lo scorso 26 gennaio, la Commissione europea ha deliberato l’apertura di una nuova procedura di infrazione nei confronti dell’Italia (n. 2016/0106) per il mancato recepimento della direttiva 2014/86/UE del Consiglio, del 8 luglio 2014, recante modifica della direttiva 2011/96/UE, concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati membri diversi.

La legge n. 80 del 7 aprile 2003 “Delega al Governo per la riforma del sistema fiscale”, che ha introdotto la previsione di un sistema più omogeneo per la tassazione di tutte le rendite finanziarie, ha tuttavia contribuito a generare uno squilibrio in merito al trattamento fiscale, posto a carico dei partecipanti alle spese dello stato, relativo ai contratti di associazione in partecipazione con attribuzione di capitale e agli strumenti finanziari partecipativi. Per effetto di tale disposizione i redditi scaturenti da strumenti finanziari partecipativi, pur giovandosi della non imponibilità nella misura del 95% a favore delle società di capitali e degli enti non commerciali, vengono reputati utili esclusivamente nell’ipotesi in cui la menzionata remunerazione sia rappresentata unicamente da dividendi distribuiti dalla società partecipata residente al di fuori dei confini nazionali, per la quale tale remunerazione non risulti deducibile dal rispettivo reddito fiscalmente rilevante. Di contro – relativamente alle società partecipate residenti – tale remunerazione risulta essere deducibile esclusivamente nella misura in cui la stessa abbia concorso alla formazione dei risultati economici dell’emittente medesimo. Di conseguenza qualora il “titolo di credito” generasse un reddito distribuito composto sia da dividendi e sia da interessi, tale componente positivo verrebbe assoggettato a imposizione per la sua interezza, sebbene risultino deducibili, per il soggetto erogante, esclusivamente gli interessi passivi corrisposti all’investitore.

Ebbene la legge europea, attraverso l’articolo 26, ripropone un corretto bilanciamento disponendo il non assoggettamento del reddito, nella misura del 95%, per quella frazione del componente positivo di reddito che non risulta essere deducibile per il soggetto emittente.

Nel caso di specie, attraverso l’inserimento del novellato comma 3-bis all’interno dell’articolo 89 del TUIR, viene statuito che, per il 95% del loro importo complessivo, non partecipano alla formazione del reddito neanche le remunerazioni dei titoli, degli strumenti finanziari e dei contratti di cui all’articolo 109, comma 9, lettere a) e b) (contratti di associazione in partecipazione),  le remunerazioni delle partecipazioni al capitale o al patrimonio e a quelle dei titoli e degli strumenti finanziari di cui all’articolo 44, provenienti da soggetti dotati dei requisiti specificati dal comma 3-ter dell’articolo 89 del TUIR.

Pertanto, le menzionate remunerazioni devono giungere da una società che veste una delle forme giuridiche previste dall’allegato I, parte A, della direttiva n. 2011/96/UE, nella quale è posseduta una partecipazione diretta nel capitale non inferiore al 10%, per un periodo non interrotto di almeno un anno e residente, ai fini tributari, in uno Stato membro della UE, senza essere considerata, ai sensi della convenzione in tema di doppia imposizione sui redditi con uno Stato terzo, residente al di fuori della UE. Inoltre deve risultare assoggettata, nello Stato di residenza e senza la facoltà di beneficiare di regimi di opzione o di esonero che non siano territorialmente o temporaneamente limitati, a una delle imposte elencate nell’allegato I, parte B, della citata direttiva o a qualsivoglia ulteriore imposta che sostituisca una tra quelle elencate.

Relativamente ai proventi erogati da soggetti non residenti, l’esenzione introdotta con l’articolo 26 dalla legge 122/2016, risulta essere applicabile esclusivamente nel caso in cui gli stessi vengano corrisposti da soggetti giuridici in possesso dei requisiti pervisti per le “società madre”, insediate in uno dei paesi dell’Unione Europea e disciplinate dalla direttiva 90/435/Cee (nota come direttiva madre-figlia), in seguito rifusa nella direttiva 2011/96/Ue e infine modificata dalle direttive 2014/86/Ue del 8 luglio 2014 e 2015/121/Ue del 27 gennaio 2015, perseverando nel penalizzare le società Ue o appartenenti allo Spazio Economico Europeo che garantiscono un adeguato scambio di informazioni (Norvegia e Islanda) che tuttavia non dispongono dei requisiti previsti dalla direttiva dell’Unione europea per le società madri e figlie, consistenti nel possedere una veste societaria tra quelle specificate nell’elenco allegato alla direttiva medesima, essere assoggettate, senza possibilità di opzione ed esenzione, a una delle imposte elencate nel medesimo allegato, essere considerate, secondo le disposizioni fiscali di uno Stato membro, come ivi aventi il domicilio fiscale e, ai sensi della convenzione contro le doppie imposizioni conclusa con uno Stato terzo, come non aventi tale domicilio fuori dell’Unione Europea.

Non possiamo inoltre esimerci dall’evidenziare la peculiarità per la quale le novellate regole risultano essere applicabili esclusivamente alle società e non alle persone fisiche.

Significativa si dimostra essere l’azione effettuata in merito ai contratti di associazione in partecipazione con conferimento di capitale. Attualmente i componenti positivi risultano essere irrilevanti ai fini della quantificazione del reddito nella misura del 95% (articolo 89, comma 2 TUIR) oltre che rivelarsi completamente indeducibili per la società partecipata (articolo 109, comma 2, lett. b) TUIR). Queste disposizioni non vengono modificate dall’intervento normativo in commento, che tuttavia ha previsto di affiancare a queste ultime una disposizione ulteriore che contempla l’applicazione del criterio della non imponibilità nella misura del 95% limitatamente alla parte di reddito indeducibile nella quantificazione del guadagno imponibile del soggetto erogante che, in forza del requisito della “novità”, dovrebbe superare le disposizioni più datate.

In conseguenza di tutto ciò è stato opportunamente integrato l’articolo 27-bis del D.P.R. 600/1973 (rimborso della ritenuta sui dividendi distribuiti a soggetti non residenti) afferente l’inapplicabilità della ritenuta ai dividendi distribuiti da società con decorrenza dalle erogazioni disposte dal 1 gennaio 2016. Con la nuova formulazione del comma 1-bis viene disposto che la previsione di non applicazione della ritenuta sugli utili distribuiti all’interno di un gruppo societario (società madre e società figlia) si applica anche alle remunerazioni indicate nell’articolo 89, comma 3-bis, TUIR, in misura corrispondente alla quota non deducibile nella determinazione del reddito della società erogante (95% dell’ammontare).

La menzionata rettifica normativa si innesta in un articolato disegno che si pone l’obiettivo di concretizzare una pluralità di provvedimenti di contrapposizione a casistiche di doppia non imposizione, imputabili alla insufficiente armonizzazione delle discipline tributarie dei diversi paesi membri.

L’intervento normativo si prefigge l’ambizioso obiettivo di contrastare la realizzazione di operazioni di arbitraggio fiscale in grado di generare situazioni di doppia non imposizione, grazie allo sfruttamento indebito di disarmonie impositive riscontrabili tra i diversi ordinamenti nazionali, mentre il divieto di applicazione della direttiva “madre-figlia” alle articolazioni societarie definite “costruzioni non genuine”, disposto dalla direttiva 2015/121/Ue, viene recepito attraverso il rimando alla disciplina antielusiva contenuta nell’articolo 10-bis della legge 212/2000, meglio nota come “statuto dei diritti del contribuente”.

Fonti: EU

Denis Torri




L’Iran si riapre all’Italia. PMI siete pronte ?

Nel 2016 si è sancito il ritorno dell’Iran al commercio internazionale.

Il 14 luglio del 2015 il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), siglato tra Iran, P5+1 (Paesi membri del consiglio di sicurezza ONU, e Germania) e UE, ha garantito l’esclusiva finalità civile del programma nucleare iraniano e ha riconosciuto a Teheran la progressiva rimozione del regime sanzionatorio imposto da ONU, USA e UE a partire dal 2006.

Lo scorso dicembre, la International Atomic Energy Agency (IAEA) ha confermato la piena attuazione dei principali impegni assunti dall’Iran. In seguito a tale conferma il 16 gennaio è stato raggiunto l’Implementation Day: Come previsto nell’accordo di luglio, ONU e UE hanno ritirato la maggior parte delle sanzioni (e gli USA hanno sospeso molte delle secondarie), sancendo il ritorno dell’Iran al commercio internazionale.

Il ritiro delle sanzioni apre interessanti opportunità per le aziende italiane in una vasta gamma di settori – dai beni di consumo alle diverse tecnologie industriali – funzionali allo alla crescita di un Paese che conta su 800 milioni di consumatori e che punto al rafforzamento delle proprie infrastrutture. Tra i settori di opportunità spiccano l’oil&gas, il minerario, i trasporti, l’automotive e l’edilizia. Il governo iraniano mira ad attrarre tra i 30 e 50 miliardi di dollari di investimenti esteri annui per raggiungere gli obiettivi di crescita macroeconomica.

Tuttavia, non bisogna sottovalutare i rischi che il Paese ancora presenta e che possono determinare problemi di natura diversa (legale, documentale, operativa) per le aziende interessate a costruire o ripristinare rapporti commerciali o finanziari con controparti locali. Inoltre, il ripristino dei canali di pagamento e la disponibilità di finanza per sostenere interscambio e investimenti restano temi cruciali. Come muoversi, dunque ?

Ecco un “Vademecum per le imprese”, una breve raccolta di “regole d’oro” sui punti fondamentali su cui concentrarsi per muovere i primi passi in modo efficace e tempestivo: l’evoluzione del quadro sanzionatorio, la conoscenza del contesto operativo, la valutazione del potenziale d’internazionalizzazione, la protezione degli investimenti, la promozione del business e la corretta perimetrazione delle attività in cui è possibile operare. Soffermiamoci su cinque verifiche fondamentali da effettuare per fare business in Iran

Verificare i settori in cui si può fare business.

A partire da gennaio non sono più sanzionati diversi settori dell’economia iraniana: finanziario, bancario e assicurativo; oil&gas e petrolchimico; shipping, cantieristica navale e trasporti; metalli; software; oro e altri metalli preziosi. Restano invece in vigore le sanzioni riguardanti sia le armi sia il programma nucleare oltre a quelle legate ad accuse di violazione dei diritti umani, di supporto al terrorismo internazionale. Gli Stati Uniti hanno sospeso (non abrogato) le cosiddette sanzioni secondarie per le non-US persons, mentre resta valido il divieto all’operatività per i soggetti di diritto statunitense.

Verificare le controparti con cui si può fare business. 

È necessario accertare che le controparti iraniane non siano incluse nella lista dei soggetti che rimarranno sanzionati anche dopo il 16 gennaio 2016. Verso questi soggetti, oltre alla normativa EU direttamente applicabile, gli Stati Uniti manterranno le sanzioni secondarie (applicabili alle non-US persons). Più in generale, la riapertura del paese richiederà inevitabilmente un processo di attenta selezione delle controparti dopo che anni di esclusione dai mercati internazionali hanno incrementato la presenza economica dello stato nell’economia iraniana, limitando la concorrenza interna delle imprese locali e aumentando i rischi di corruzione.

Verificare le procedure normative e doganali vigenti. 

Visto il nuovo contesto internazionale, è logico attendersi un aggiornamento della normativa doganale iraniana ed è quindi fondamentale monitorarne l’evoluzione. Nel frattempo, oltre alle condizioni poste dal quadro sanzionatorio, è bene informarsi anche su quelle della normativa iraniana che vietano, ad esempio, l’import di bevande alcoliche, di beni destinati al gioco d’azzardo e di  altri beni che possano contrastare con la moralità pubblica.

Verificare la conformità dei contratti alla normativa nazionale e internazionale.

Nella redazione dei contratti, oltre al rispetto del codice civile locale, che comprende alcuni elementi di diritto islamico (la cosiddetta Sharia), è necessario tenere conto delle peculiarità del sistema giuridico iraniano (es. il parziale riconoscimento di sentenze e arbitrati esteri, l’assenza del concetto di “forza maggiore” quale causa di risoluzione contrattuale). Inoltre, tutti i contratti stilati successivamente al 16 gennaio 2016 dovranno contenere clausole specifiche che facciano riferimento alla possibile evoluzione del quadro sanzionatorio (es. la cosiddetta clausola di snap-back sulla possibile reintroduzione delle sanzioni).

Verificare le modalità di pagamento consentite.

Con la rimozione delle sanzioni, governo e controparti iraniane potranno nuovamente effettuare transazioni finanziarie internazionali purché queste non siano realizzate con controparti statunitensi, non prevedano l’intermediazione di banche Usa, non riguardino soggetti individualmente sanzionati. Attualmente 25 banche iraniane sono state riammesse al circuito SWIFT. Le autorità iraniane non consentono al momento l’emissione di lettere di credito (LC) confermabili. La regolamentazione è però in rapida evoluzione e una serie di banche italiane ha già riattivato l’operatività nel Paese, ma il tema della finanza per sostenere l’interscambio e gli investimenti pronti a ripartire resta cruciale.

In sintesi le principali  regole da adottare:

  1. CONTROLLA SE LA SOSPENSIONE DELLE SANZIONI SI APPLICA AI TUOI PRODOTTI
  2. VERIFICA LE CONTROPARTI IRANIANE CON CUI POTRAI FARE BUSINESS
  3. MONITORA LE PROCEDURE NORMATIVE E DOGANALI
  4. ACCERTATI DELLE MODALITÀ DI PAGAMENTO PERMESSE
  5. VERIFICA CHE I CONTRATTI RISPETTINO STANDARD E CLAUSOLE SPECIFICHE PREVISTE A LIVELLO NAZIONALE ED INTERNAZIONALE
  6. TIENI D’OCCHIO L’EVOLUZIONE DEL PROCESSO SANZIONATORIO
  7. SFRUTTA IL POTENZIALE DEL PAESE PER INTERNAZIONALIZZARE LA TUA ATTIVITÀ
  8. PROTEGGI I TUOI INVESTIMENTI
  9. PROMUOVI IL TUO BUSINESS IN IRAN
  10. CONOSCI IL CONTESTO OPERATIVO

Fonti: exp.sace

Denis Torri